La canzone dell’amor paterno
In questo periodo in cui si parla tanto (giustamente, ma anche retoricamente) di patriarcato, mi è tornata in mente una canzone che cantavo sempre a mio figlio per aiutarlo ad addormentarsi (compito che è sempre spettato a me per entrambi i figli). Non che ne avesse bisogno, però era diventato un rito: un momento in cui fermavo le macchine e, ascoltando il suo respiro farsi placido nel sonno, mi ricentravo e mi ascoltavo – in tutti i sensi.
Il repertorio era molto limitato, per lo più inventato oppure trasformato, come il rifacimento nel mio dialetto di Da me riva di Fabrizio De André, tratta dal suo concept album del 1984 Creuza de mä.
Nell’estate del 2009 avevo organizzato sugli scavi archeologici di Altino un concerto-tributo a “Faber”, a 10 anni dalla sua scomparsa. La sera dell’evento, a cena con il gruppo, avevo chiesto al cantante come mai in scaletta non avessero previsto nemmeno un pezzo di quell’album. I motivi erano vari: pur essendo considerato un capolavoro della world music e uno dei dischi più importanti degli anni ’80 (così lo definì David Byrne, leader dei Talking Heads e amico/collaboratore di Brian Eno), nessuna delle sette canzoni che ne facevano parte era mai diventata popolare come per esempio Bocca di rosa, Guerra di Piero, Via del campo etc. Poi c’era la difficoltà oggettiva a riarrangiare (senza snaturarli) brani nati per essere suonati per lo più su strumenti etnici; ma soprattutto c’era la difficoltà di cantare (e, per gli ascoltatori, di capire) testi scritti completamente in dialetto genovese.
Così me ne uscii con una proposta – E se ve le traducessi io nel nostro dialetto? – che ad Andrea, cantante del gruppo, suonò come una battuta, ma che invece a me ronzò nella testa nei giorni seguenti finché non mi decisi a farlo, anche solo per provarci. Recuperai allora le traduzioni dei testi e subito ebbi la sensazione che avrei potuto fare qualcosa di più di una semplice, meccanica versione letterale.
È risaputo come Genova e Venezia furono, con Amalfi e Pisa, le due principali repubbliche marinare dell’Italia medievale. Naturale quindi che nell’una e nell’altra cultura ci fossero delle sovrapposizioni, come per esempio l’usanza di far uscire un giorno alla settimana le prostitute dal loro quartiere, libere di girare per la città a fini… promozionali. A Genova succedeva la domenica, a Venezia il sabato, ma il “rito” era pressoché uguale. O ancora la pittima, incaricata dai creditori di seguire i loro debitori, ricordandogli continuamente, e in pubblico, il loro debito. Questo personaggio dai tratti folkloristici esisteva fin dai tempi antichi sia a Genova sia a Venezia, e pare prendesse il suo nome dal greco epìthema (“che è posto sopra”), termine con cui i medici greci e latini indicavano un decotto di aromi applicato a scopo terapeutico sulla regione del cuore, del fegato o dello stomaco. Un nome che è rimasto nell’uso odierno nell’espressione “essere una pittima”, ovvero un lamentoso. Seguendo questa “pista” tradussi A dumenega (che diventò El sabo) e A pittima.
Per Creuza de mä – la canzone che dà il titolo all’album – questo approccio non funzionava. Mi venne però in aiuto un lavoro lessicografico fatto qualche anno prima per l’università di Venezia sul Goffredo del Tasso cantà alla barcariola di Tommaso Mondini, una traduzione della Gerusalemme liberata calata per modalità comunicativa e riferimenti culturali negli ambienti popolari della Venezia del Seicento. Sulla falsariga dell’operazione del Mondini provai a trasportare il testo di De André nella mia cultura marinaresca, sostituendo i riferimenti alla navigazione in mare aperto o sotto costa con quelli alla navigazione interna, lagunare e fluviale, tipica delle mie zone. Naturale fu rivolgermi all’ambiente dei “barcari”, ovvero i conducenti dei “burci”, le imbarcazioni da carico che fino almeno agli anni ’70 del ‘900 solcavano le acque del fiume Sile trasportando merci (grano, legname, ghiaia) dalla Terraferma alla città lagunare. Da qui Trozo de mar (sentiero di mare) di cui riporto a titolo esemplificativo solo l’ultima strofa:
E inte’l burcio del vin ndaremo verso i scogi, emigranti del ridar coi stechi sui oci, finché a mattina no sarà alta bastansa che podaremo mettarla inte’a baeansa, parona dea corda marsa de acqua e de sal che ne iga e ne porta par sto trozo de mar.
E nella barca del vino andremo verso gli scogli, / emigranti della risata con gli stecchi negli occhi, / finché il mattino non sarà alto abbastanza / da poterlo mettere dentro alla bilancia, / padrone [il mattino] della corda marcia di acqua e di sale / che ci lega e ci porta per questo sentiero di mare.
Il «trozo de mar» sarebbe il Sile, che tramite il Silone entra in laguna e sui cui argini (le “alzaie” o “restere”) un tempo si spostavano gli uomini e le bestie che trainavano con la corda i pesanti “burci”, e dove ancora oggi si affacciano le bilance che al mattino, guardando a oriente, sembrano levare in alto il sole assieme al pescato…
L’ambiente dei “barcari” mi fornì la chiave per tradurre anche la quarta e ultima delle canzoni che mi riuscì di portare a termine senza cadere nella sterile letteralità. Si tratta di Da me riva, il più lirico dei testi dell’album, incentrato sulla nostalgia che coglie il navigatore-Ulisse destinato continuamente ad allontanarsi dalla sua patria e dalla sua amata, rappresentata prima dal fazzoletto bianco che risplende sotto il sole, sul molo di Genova; poi, una volta in mare, dalla fotografia di lei da ragazza, baciando la cui bocca è come se l’io-narrante baciasse anche la sua città. Mi immaginai così il “barcaro” che torna – per ripartire, nuovamente – al suo paese. E quel paese non poteva essere che il paese di origine di mia mamma, Casale sul Sile, che fino a quasi tutto il ‘900 ospitò una nutrita comunità di “barcari” che alloggiavano “drio riva”, ovvero lungo l’argine destro del Sile, dietro la chiesa. Un nome (anzi: un toponimo) che avevo sentito nominare molte volte dai miei parenti (assieme a “rivalta”, dov’era nata mia mamma, un chilometro in linea d’aria più a monte) e che mi regalava un assist perfetto per la mia traslazione.
Costruita su un arpeggio di soli tre accordi (Do, Fa, Sol) e su una melodia da ninna nanna, è questa la canzone che tra l’estate e l’autunno del 2009 suonavo e cantavo a Giacomo quando lo portavo a dormire. Non trovando – a differenza delle altre – nessuna traccia scritta di questa traduzione risalente a quel periodo è facile che l’abbia “scritta” a mente durante quelle performance serali, affacciato non al «baule da marinaio» (come canta De André) ma alla culla di mio figlio. E così, quella che inizialmente doveva essere una canzone d’amore coniugale, un po’ alla volta diventò, nella mia testa, una canzone d’amore paterno.
Era per me quello un periodo pieno di impegni, su più fronti (lavorativo, sociale, culturale). Tornare «su dal mare» (le camere da letto, a casa nostra, sono al secondo piano…) dopo tanto navigare «contro corrente» per poter coccolare mio figlio era (e lo è ancora adesso, con la secondogenita) un appuntamento irrinunciabile, e la rassicurazione finale un modo diverso, originale, per ribadire un concetto ormai consunto, al limite del banale.
Drio riva
(Ovvero: la canzone dell’amor paterno)
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore
Dante, Inferno, XXVI
Drio riva finalmente son tornà – drio riva… ‘nt’e a me vita sempre e sóeo a navegar – ‘nt’e a me vita…
No sta’ ngarghe drio a’a zente
nàvego contro corente.
Son vegnuo su dal mar
par poderte ancora amar.
Na na naa naa naaa…
Drio riva
son tornà a navegar
– drio riva…
‘nt’e a me vita
sempre e sóeo a navegar
– ‘nt’e a me vita…
E co’ a notte se fa scura
dormi, no sta’ ver paura,
che dal fiume rivarà
sta canson che fa…
Na na naa naa naaa…
Lungo riva / finalmente sono arrivato / – lungo riva… / Nella mia vita / sempre e solo navigare / – nella mia vita… / Non ascoltare quello che dice la gente, / navigo contro corrente. / Sono salito dal mare / per poterti ancora amare // Na na naa naa naaa… // Lungo riva / sono tornato a navigare / – lungo riva… / Nella mia vita / sempre e solo navigare / – nella mia vita… / E quando la notte si fa scura / dormi, non avere paura, / ché dal fiume arriverà / questa canzone che fa… // Na na naa naa naaa…