Come nasce una copertina
Appunti a margine di un’intervista sulla progettazione della copertina di un libro.

La scorsa settimana mi scrive una gentilissima ragazza italo-argentina, autrice di claveldelaire.it, un blog in cui recensisce libri di autori latino-americani pubblicati in Italia.
Rocío – così si chiama – mi dice che a fine mese recensirà Ballata per mia madre, romanzo dello scrittore messicano Julián Herbert pubblicato da Gran Vía Edizioni nel 2014, di cui ha apprezzato moltissimo, oltre al testo, la “mia” copertina. E mi chiede se mi andrebbe di rispondere ad alcune domande in proposito.
Io ovviamente accetto. E questo è quanto (la recensione del libro, davvero ben fatta e ben scritta, la si trova qui).
Intervista a Mirko Visentin, designer della copertina

Oltre al titolo, anche la copertina dell’edizione italiana risulta molto diversa da quella originale. Personalmente, a me sembra anche più bella. La cosa mi ha incuriosito, e ho provato a scrivere a Mirko Visentin, designer della copertina. Mirko ha risposto alle mie curiosità, e ne è nata un’intervista che condivido con voi:
ROCÍO: Non capita spesso di parlare del processo creativo che sta dietro la creazione delle copertine, eppure la copertina è fondamentale perché catturare l’occhio del lettore significa spesso aver già venduto metà del libro. Nell’edizione di Random House compare un bambino imbronciato in bianco e nero, che richiama lo scrittore da piccolo. Nell’edizione italiana, invece, tu hai deciso di ribaltare tutto, rendendo protagonista la madre e puntando sui colori. Come sei arrivato a questo risultato?
MIRKO: Dovendo attenermi al progetto grafico che avevo realizzato l’anno prima per la neonata collana Gran Vía Original, mi serviva innanzitutto un soggetto tendenzialmente astratto da usare come elemento di fondo (seppur non coprente) della copertina.
Leggendo le prime pagine del libro ero rimasto colpito dall’immagine dell’autore-bambino che si sposta continuamente da un villaggio all’altro del Messico al seguito della madre, e me lo sono immaginato mentre dal finestrino osserva il cielo che si stende sopra pianure desertiche del Sudamerica. La foto che avevo trovato era però troppo didascalica e realistica.
Per “staccarla” dal qui-e-ora e suggerire inoltre la presenza di un vetro tra il soggetto e gli occhi di chi lo stava osservando ho applicato, tramite lo smartphone, uno dei primi filtri “vintage” di Instagram, che ha aggiunto quei graffi alla superficie e virato i colori verso quelli tipici delle foto degli anni ’70 (gli anni dell’infanzia di Herbert). Il progetto grafico prevedeva inoltre un “elemento posticcio” (in Gran Vía lo chiamiamo così, perché non ha una collocazione precisa), da applicare sulla copertina come un adesivo o una serigrafia.
L’idea originaria era quella di creare un gioco di contrasti stilistici, aggiungendo inoltre una nota pop alla copertina grazie all’effetto timbro ad alto contrasto. Fino a quel momento avevo utilizzato solo oggetti: delle pillole, una bici, un furgoncino, una gabbia per uccelli. Nel caso di Herbert ebbi la fortuna di trovare una foto che per caratteristiche si prestava bene sia a evocare la madre dell’autore da giovane (descritta come una ragazza bellissima dai capelli mori e fluenti) sia a essere resa ad alto contrasto senza che si perdessero i tratti somatici e specialmente la plasticità della posa e l’intensità dello sguardo.
ROCÍO: Qual è il tuo processo creativo ogni volta che devi creare una copertina? A cosa t’ispiri?
MIRKO: Non essendo un illustratore ma un designer, il mio approccio creativo è prima di tutto di tipo strutturale: scelta del carattere tipografico, della disposizione degli elementi, del colore. A volte, come nel caso di Ballata per mia madre, è mia anche la scelta iconografica, altre volte mi viene fornita o suggerita, e il mio compito diventa quello di armonizzare progetto e soggetto.
Per quanto riguarda i libri di Gran Vía, normalmente Annalisa Proietti mi racconta la trama del libro fornendomi qualche spunto, senza però pormi nessun vincolo. A volte cerco ulteriore ispirazione nello stile di scrittura dell’autore, leggendo qualche pagina. Evito di leggere tutto il libro, perché mi darebbe troppi spunti. Preferisco farlo quando è stampato e verificare così, a posteriori, la validità della copertina.
ROCÍO: Com’è nata la tua collaborazione con Gran Vía?
MIRKO: La mia collaborazione con Gran Vía ha inizio nel 2009 quando Fabio Cremonesi mi propose di rivisitare in chiave meno concettuale la grafica delle collane allora attive. Il rapporto si è intensificato e consolidato con il passaggio del marchio ad Annalisa, per la quale ho realizzato 5 progetti di collana per un totale di oltre 50 copertine.
Appunti a margine dell’intervista

Qualche anno dopo, nel 2018, ho avuto l’occasione di realizzare – sempre per Gran vía – la copertina di un altro libro di Julián Herbert: La casa del dolore altrui, secondo volume della collana Diagonal, nata quello stesso anno per ospitare libri di non-fiction novel, in bilico tra saggistica e narrativa. Quando Annalisa me ne parlò la collana non aveva ancora un nome; fu così che le proposi Diagonal, come la Avinguda Diagonal, la strada che taglia diagonalmente Barcellona appena sopra l’Eixample (la zona di “espansione” urbanistica ottocentesca). Il riferimento stradale non era casuale in quanto si rifaceva all’origine del nome e del logo della casa editrice (Gran vía è la strada principale di Madrid, e il logo rappresenta il “triangolo” delle stazioni della metropolitana Gran vía-Callao-Sol) ma ancor più al nome della storica collana M30, che raccoglieva testi di narrativa contemporanea dalla Spagna “plurale” allo stesso modo in cui la circonvallazione di Madrid, da cui prendeva il nome, raccoglie e incanala verso la capitale le strade che arrivano dai quattro angoli della Spagna.
L’idea le piacque e da quel concetto di diagonalità partii per progettare anche il layout della copertine della collana.
Diagonalità, in grafica – e soprattutto in tipografia – richiama una certa estetica razionalista e modernista, nata a inizio ‘900 entro il movimento Bauhaus con la “Neue Typographie” e sviluppata a partire dagli anni ’50 nell’ambito della “scuola svizzera”. Questo significava abbandonare l’aspetto tutto sommato elegante della collana Gran vía original, ottenuto tramite un uso abbondante del bianco e soprattutto dal font aggraziato. Una scelta non facile, perché in questo modo venivo meno al principio secondo me fondamentale, specie per una piccola realtà editoriale come Gran Vía, della riconoscibilità cross-prodotto.
Per ovviare ho operato su due livelli: uno, più evidente, riproponendo quell'”elemento posticcio” escogitato per dare un aspetto più “pop” alle copertine di Gran vía original; l’altro, più sottile, utilizzando lo stesso font – il Joanna di Eric Gill (1930) – ma in un recentissimo revival senza grazie e nella variante più “pesante” disponibile.
Venendo alla copertina di La casa del dolore altrui, per l’elemento posticcio sono partito dalla foto, trovata in un sito e-commerce, del tipico copricapo da lavoro cinese, indossato da un modello.

Il libro infatti ricostruisce – con una narrazione davvero coinvolgente – il massacro della comunità cinese di un piccolo centro del Messico avvenuto nel 1911 ad opera di rivoluzionari messicani della prima ora. Il soggetto della foto, una volta riportato alle sue linee essenziali, mi ha subito ricordato una persona che passa velocemente, occhi bassi, volto in ombra, entro il campo visivo del lettore, con l’obiettivo di passare inosservata, di non disturbare. Esattamente come succede ancora adesso – purtroppo – per molte comunità di migranti.
Il pericolo, chiamando in causa un elemento così identificativo della cultura cinese, era di risultare didascalici: in realtà né il titolo, né lo strillo scelto da Annalisa aveva nessun riferimento etnico, quindi fu proprio quell’accenno di copricapo in chiaroscuro che ebbe il compito di trasportare il lettore, fin dalla copertina, in una dimensione orientale. La scelta, infine, del colore è caduta sul rosso non tanto per ribadire il collegamento con la Cina, quando piuttosto per sottolineare la drammaticità del sanguinoso evento.