Mirko Visentin

Vivo, scrivo, camino pa’l cortivo.

Le ragioni di un payoff

Tutto è partito dal Fu Mattia Pascal di Pirandello, letto a cavallo tra le superiori e l’università, a metà anni ’90. Nel libro c’è una frase – tra le più famose del romanzo – che mi si piantò in testa, riaffiorando spesso negli anni successivi:

La vita o si vive o si scrive, io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola.

Sforbiciata, memorizzata, metabolizzata a modo mio, in una data non meglio precisata dei primi anni 2000 la rigurgitai sotto forma dei tre versi messi a motto – o payoff – di questo sito.

Vivo
scrivo
camino pa’l cortivo.

Ovvero: “Vivo, scrivo, passeggio per il cortile”.

Tre versi che fotografano molto bene il me di quest’ultimo periodo: un periodo di personale ritorno alla scrittura, dopo quindici anni di pausa in cui ho prevalentemente vissuto. Come si suol dire: ho “messo su famiglia”, ho “fatto impresa”, ho “fatto politica” – ma ho scritto poco.

Poi è arrivata la pandemia, che ha rimescolato le carte. Lavorare da casa e non più in ufficio, per lo più da solo, tra i miei libri, riappropriandomi del tempo – spesso troppo – dedicato alla gestione della socialità, mi ha fatto tornare la voglia di leggere, rileggere (cose vecchie ma anche cose mie) e di scrivere.

E il camminare? È un’altra pratica che avevo perso e che ho recuperato nella primavera del 2020, durante il lockdown, quando il giro dell’isolato, da recriminazione di un diritto universale – quello all’ora d’aria – si è via via trasformato in un rito quotidiano a cui difficilmente, ora, riesco a rinunciare.

Era da metà degli anni ’90 che non camminavo con tanta metodicità, ispirato all’epoca dalla lettura dei romanzi di due grandi camminatori: Jack Kerouac e Herman Hesse. Credo sia proprio in quel periodo che ho iniziato a collegare l’atto del camminare con quello della lettura e della scrittura. Partivo da casa e mi dirigevo verso l’argine del fiume, passando per la piazza. Qui mi sedevo, tiravo fuori il mio libro e leggevo. Durante il viaggio di ritorno, accompagnato dal ritmo dei miei passi, rielaboravo quello che avevo letto e abbozzavo pensieri, frasi, versi che una volta tornato a casa tentavo – ancora goffamente – di mettere su carta.

Ora, da quando i miei figli hanno ripreso a fare scuola in presenza, approfitto del fatto di accompagnare la più piccola alla fermata dello scuolabus, alle 7:30, per farmi un’ora di camminata. I giri sono sempre gli stessi e li alterno senza uno schema preciso. Ogni tanto sono dettati da una tappa (in banca, alla scuola di musica, in ufficio), ma il più delle volte li scelgo sul momento, senza una ragione precisa. I luoghi che attraverso sono più o meno quelli che attraversava il me diciassettenne. Più o meno, perché nel frattempo il paese si è trasformato molto, specie agli occhi di chi, come me, in questo “cortivo” – fisico e metafisico – c’è nato e cresciuto.

Inizialmente ascoltavo musica, per lo più la stessa che ascoltavo all’epoca – dai Beastie Boys a Jamiroquai, dai Nirvana ai Pearl Jam, dai Casino Royale ai Marlene Kuntz a Paolo Conte – poi ho cominciato a scrivere, preferibilmente versi, ovviamente in dialetto, trascrivendoli sul cellulare non appena ritenevo di aver raggiunto un risultato soddisfacente. Oppure ricordi, connessioni, riflessioni che una volta rientrato a casa, nella solitudine del salotto-ufficio, provavo a rielaborare al computer. Per mezzora, per un’ora o due, non importa. Solo una volta finito potevo tornare con serenità alle incombenze del lavoro o della casa. Alla vita normale, insomma.

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