La «fatica nera» del giovedì
Quello che segue è un racconto con il quale ho partecipato di recente a un concorso letterario sulla “cultura d’impresa”, senza però riuscire ad entrare – come mi hanno gentilmente risposto – «tra le prime dieci posizioni della classifica». Poco importa. Lo pubblico comunque, assieme alla canzone che l’ha ispirato. Una canzone (di cui racconterò meglio la genesi in un altro post) scritta e composta dall’amico Enrico Lucchese dopo una delle nostre quotidiane dissertazioni, e alla quale ho sentito l’esigenza di partecipare – a mio modo.
La canzone si intitola Oggi è giovedì, il racconto La «fatica nera».
Oggi è giovedì
Musiche: Enrico Lucchese
Testo e voce: Enrico Lucchese, Mirko Visentin
La «fatica nera»
Però quella del pane era una bella idea
E. L.
Oggi è giovedì e consegno il pane. Un altro giovedì – e continua a piovere. Penso a tutta quest’acqua, alle mie scarpe nuove; ma se non piove non cresce il grano, se non c’è il grano non si fa il pane, se non c’è il pane non entra money. Allora accendo il motore, avvio il tergicristallo, metto la freccia e parto.
L’inverno è stato arido, avido d’acqua, che manca quando ci vorrebbe e abbonda quando non dovrebbe. È mancata l’acqua come il tempo, il tempo e le energie che mi ci vorrebbero per star dietro ai miei progetti, a tutte queste idee che piovono dentro dal soffitto.
Non in pane solo vivet homo, dicono i Vangeli. Ci penso mentre inizio quest’altro giro di consegne. L’ultimo forse. Perché ho deciso di mollare.
Non era questa la strada che dovevo imboccare. Avrei dovuto fermarmi prima, fare solo il mio lavoro, che è prendere un’idea e renderla chiara e vendibile, con belle parole e belle lettere. Fare “il grafico”, insomma.
Ma mi son fatto prendere la mano, di nuovo. Ho fatto mia l’idea più del dovuto, ho iniziato a fantasticarci dentro, a proiettarci la mia visione della vita, del lavoro – del mondo. A immaginarla impresa. Perché quando arrivi all’anima delle cose per poterle meglio spiegare, è difficile poi staccarsene, lasciarle andare. Ed è forse questo il motivo che mi spinge ogni volta a farmi imprenditore, a fare impresa.
Impresa è participio passato di imprendere, derivato dal latino parlato imprehendere, composto da ‘in’ e ‘prehendere’, ovvero “assumere sopra di sé”, “prendere all’interno”. Quindi, stando alla Treccani e a quanto riportato sulla mia carta d’identità, io sono un imprenditore. Almeno finché l’idea che ho preso a cuore e ho contribuito a plasmare e sviluppare, interiorizzandola, non me la ritrovo sopra di me, iniziando a percepirne il peso. Che non è il peso della responsabilità, no. Sono sufficientemente incosciente da riuscire a dormire anche con la testa piena di pensieri. Anzi: più ne ho, più sento la necessità di spegnerla – e più dormo volentieri.
Il peso che sento è quello del dubbio. Dubbio di stare a fare la cosa giusta.
– Ciao “pane coraggioso”!
– Ciao Paolo, come va?
– Siamo qua, come sempre. E tu? Quanto manca?
– Eh, ormai pochissimo. Forse oggi è l’ultima volta che ci vediamo. Però passo a trovarvi quando sono in zona.
– Beato te! Ma adesso cosa farai?
«Cosa farai da grande?» mi chiedevano da bambino. L’inventore, il prete, il contadino: queste le risposte che ricordo. Che poi ci sta: l’inventore è un creativo, il prete un comunicatore e il contadino un coltivatore. E io non uso forse la creatività per comunicare le idee che mi trovo di volta in volta a coltivare? Dietrologia. Il fatto è che a un certo punto ho smesso di pensare a cosa avrei fatto da grande e ho semplicemente iniziato a diventarlo, grande.
Quando dissi a mio papà che terminati gli studi tecnici mi sarei iscritto a Lettere e non a Ingegneria, lui mi chiese cosa avrei fatto dopo. In una frazione di secondo le granitiche sicurezze dell’infanzia andarono in frantumi. L’inventore certamente no, se stavo abbandonando la tecnologia per la poesia. Il prete nemmeno, considerato che nel frattempo ero diventato ateo. Il contadino? Anche se con calma ci sarei arrivato, per il momento era escluso.
Ecco il peso del dubbio che iniziava a farsi sentire.
«Per ora non ci penso» risposi. E lui: «D’accordo, allora l’università te la paghi».
Fu in quell’occasione che iniziai a diventare grande. E fu l’inizio della mia prima impresa.
Anche se Lettere non è Medicina o Ingegneria, presi l’impegno molto sul serio. Mi laureai nei tempi previsti pur essendo digiuno di tutte le materie d’esame – a partire dal latino – e feci una tesi di tutto rispetto, al di là del 110 e lode che mi consacrò dottore.
Ci misi letteralmente l’anima. E poi? Poi mollai, non perseverai lungo quella che avrebbe dovuto – e potuto – essere la direzione naturale di quell’impresa: la carriera accademica, o al limite l’insegnamento. Per quanto tutto quello che avevo fatto e stavo facendo mi piacesse in modo viscerale, mollai. Perché? Avevo fretta. E paura. Fretta di raggiungere un obiettivo concreto – insomma, di monetizzare. Paura di cacciarmi in un senso unico o – peggio – di non essere all’altezza della situazione o di chi aveva una formazione umanistica più solida di me. Cazzate? Cazzate.
Ed è così che ho finito per fare – ed essere – “il grafico”.
– Ciao Alberto, tutto ok?
– Ciao caro… scusa ma sono di corsa… comunque sì, grazie, sempre un sacco di cose da fare tra il negozio, il laboratorio, gli eventi… però sarebbe peggio se non ci fossero, quindi non mi lamento… Ecco i soldi, scappo… E ci vediamo la prossima settimana…
– In realtà questa è… (Vabbe’, Alberto, ci vediamo. E buon lavoro.)
Una cosa che mi spaventa è il non sapermi dare un limite. Peggio ancora, l’idea di avere installata anch’io, come i miei conterranei qui a Nordest, la cultura dell’impresa. Che è altra cosa dalla cultura d’impresa. Nella cultura dell’impresa il lavoro sovrascrive tutto, e quando manca viene a mancare la ragione della propria esistenza, non importa se succede per stagnazione del mercato o per pensionamento.
Così, quando mi accorgo di aver perso il gusto per l’ozio come lo intendevano gli antichi romani, vado in crash. Per gli antichi romani il lavoro – il negotium – era letteralmente la negazione dell’ozio (nec otium, “ciò che non è otium”), ovvero il tempo dedicato a coltivare i propri interessi più elevati. Il negotium dipendeva – anche semanticamente – dall’otium, non viceversa, come qui a Nordest, dove i 15 giorni di ferie a cavallo di ferragosto sono più una seccatura che non il frutto dei precedenti 350 sacrificati sull’altare del negotium.
Non esagero se dico che è solo grazie allo studio disinteressato delle materie umanistiche – cose inutili, lingue morte – che sono riuscito a contrastare l’influenza subdola e perversa della cultura dell’impresa, sviluppando una mia personale cultura d’impresa in cui l’otium è il baricentro, il luogo e il tempo in cui nascono e prendono forma quelle idee che, opportunamente sviluppate, diventeranno – forse – il negotium del futuro. Piccolo o grande che sia. Anzi, meglio piccolo che grande.
Lavorare meno e lavorare meglio. Fare solo quello che ti piace. Sfruttare le nuove tecnologie per ottimizzare i processi, eccetera. Demagogia, dite? Dipende: io li chiamo microbusiness, quelli per cui se ti stanchi o se le cose non vanno come vorresti, stacchi la spina senza grossi pensieri.
Non mi sentivo più a mio agio quindi Jack è uscito dal gruppo,
chiuso in salotto con in loop il vinile di In Utero…
La voce di mio figlio esce dagli altoparlanti del furgone, accompagnata come al solito da dei bassi esagerati. Spesso, quando quello che passa per radio mi annoia, metto su le sue canzoni, che sedimentano nel mio telefono da quando ha iniziato a usare la nostra chat di Telegram per passarsele dal computer fisso al mio portatile.
Ascolto questi due versi per l’ennesima volta e per l’ennesima volta mi emoziono. Perché parlano di lui, ma anche di me. E non è forse questa quella che chiamiamo poesia? Saper rendere universale il particolare, parlare di me anche se stai parlando di te.
l’amore è tossico
non ascolto le voci di corridoio
dico tutto al mic come fosse il mio psicologo
Senza saperlo stavamo vivendo lo stesso disagio più o meno nello stesso periodo, dopo la tormenta della pandemia, quando eravamo tutti concentrati più sul presente che sul futuro. Però mentre lui, con la rapidità dei suoi quindici anni, ha appeso il basso al chiodo e imbracciato il microfono, io, con la lentezza dei miei quarantacinque, ci ho messo due anni, una serie di acciacchi psicosomatici e un diario in versi prima di decidermi ad affrontare la questione col mio socio.
– Ciao Anna.
– Buongiorno! Allora? Il grande giorno è arrivato…
– Già… Ma stavi tenendo il conto? (Ridiamo entrambi.)
– No, è che da un lato mi dispiace…
– Be’, grazie… Comunque il grande giorno si chiama “pensione”, ma chissà quando arriverà – se arriverà… (Ridiamo entrambi.)
Mi colpisce quanto i clienti siano rimasti increduli alla notizia che mi stavo ritirando. Evidentemente la mia scelta stride con l’entusiasmo con cui ho portato avanti il progetto fino ad ora. Il fatto è che ogni rosa ha le sue spine.
Racconta Primo Levi, intervistato da Philip Roth nell’autunno del 1986: «Ho vissuto in fabbrica per quasi trent’anni e devo ammettere che non c’è contraddizione fra l’essere un chimico e l’essere uno scrittore: c’è anzi un reciproco rinforzo. Ma stare in fabbrica, anzi, dirigere una fabbrica, significa molte altre cose diverse e lontane dalla chimica: assumere e licenziare personale; litigare col padrone, con clienti e con fornitori; far fronte a incidenti, ed essere chiamati al telefono, magari di notte o durante una cena da amici; occuparsi di noiose faccende burocratiche; e tante altre “soul destroying tasks”, compiti che distruggono l’anima. Tutti questi affari sono brutalmente incompatibili con lo scrivere, che esige una certa pace dell’anima; perciò mi sento veramente nato una seconda volta quando ho raggiunto l’età della pensione e ho potuto dare le mie dimissioni, rinunciando cosí alla mia anima numero uno».
Forse era anche a questo che si riferiva Beppe Fenoglio quando parlava a Italo Calvino della «fatica nera» che ci metteva a scrivere, diviso com’era tra la sua aspirazione di scrittore e il suo impiego full time come direttore commerciale di una grossa azienda vinicola.
Allora mi chiedo: può esserci impresa senza soul destroying tasks ad affossare l’entusiasmo e a trasformare in fatica nera le proprie aspirazioni creative? O senza che la cultura d’impresa scada nella cultura dell’impresa? Può l’otium vivere in armonia con il negotium?
Nel frattempo sono arrivato all’ultima tappa del giro: l’azienda di trasporti marittimi che ci permette di far arrivare il pane fino al cuore di Venezia. Un lavoro veramente duro e ingrato, da bestemmie quando lo scirocco gonfia i canali impedendo alla barca di passare sotto ai ponti, o quando piove che dio la manda e non sai come riparare la merce, o quando a Carnevale le calli si ingolfano di turisti inebetiti e hai voglia tu a chiedere permesso, a gridare ocioaegambe attenscionpliis…
– Carissimo.
– Oi Giorgio. Dove posso scaricare?
– Metti pure lì, poi lo sposto io col muletto.
– Ok, ma mi raccomando domani: puntuali anche se c’è scirocco.
– Va’ remengo, va’…
Accolgo l’invito: accendo il motore, avvio il tergicristallo, metto la freccia e vado, ramingo, verso una nuova impresa.
marzo/aprile 2024