Perché pubblicare Il cazzoniere oggi
Agli inizi del 1997, per metabolizzare forme, stili, temi della poesia italiana delle origini – sulla quale mi ero buttato a capofitto con studio «matto e disperatissimo» – avevo iniziato a scrivere qualche sonetto, stanza di canzone, quartina di endecasillabi, facendo ironicamente il verso ai poeti del Due-Trecento.
La cosa andò avanti per parecchi mesi, finché verso la fine dell’anno decisi che quel tipo di esperienza poetica poteva dirsi conclusa e accettata in quanto gogliardico esercizio di stile, specie in relazione alla parallela produzione in dialetto, che sentivo più sincera, più mia. Da qui l’idea di licenziarne la pubblicazione – in pochi esemplari fatti in casa, destinati ad amici e parenti – con il titolo Cazzoniere in lingua e un’eloquente dedica «a me stesso».
Alla fine non se ne fece nulla, ma negli anni a venire l’idea di quella pubblicazione è tornata ciclicamente – quasi ossessivamente – a bussare alla mia porta, col suo sèguito di interventi, modifiche, riorganizzazioni, impaginazioni, prove di stampa. Perché?
Perché quella manciata di – per lo più – sonetti metricamente perfetti, dall’andamento a volte forzato e all’apparenza privi di valore lirico (da cui lo stesso titolo, volutamente dissacratorio), evidentemente nascondevano qualcosa di più.
Rileggendoli a distanza di quasi trent’anni mi sono infatti reso conto che da quell’intarsio di citazioni stilistiche, metriche, lessicali rubate senza timore e pudore dall’immenso data-base della letteratura italiana emerge nitida una dichiarazione d’amore, rivolta però non a una delle tante figure femminili in carne e ossa che con la loro presenza dànno spesso il pretesto alla scrittura – sia essa la compagna di corso, la collega di lavoro, l’ex fidanzata, una ragazza incrociata per caso o addirittura la futura madre dei miei figli – bensì proprio a Lei: alla letteratura italiana.
Con quelle rime, con quegli endecasillabi, con quei sonetti scritti tra una lezione e l’altra o durante il tragitto in treno da casa a Venezia – e viceversa – venivo interiorizzando e portando a maturazione una passione che quando mi iscrissi a Lettere, nel 1995, con in tasca un diploma da perito elettronico, era ancora a uno stato embrionale. Ed è proprio grazie a quelle rime, a quegli endecasillabi, a quei sonetti se ancora oggi, a distanza di venticinque anni, e nonostante la vita e il lavoro mi abbiano portato in direzioni spesso opposte rispetto a quel mondo, continua a vivere dentro di me quella «favilla» capace in qualsiasi momento – come direbbe Dante – di secondare una «gran fiamma». E se non è amore questo…
Ma c’è dell’altro. Nei mesi in cui venivo componendo i primi sonetti stavo cercando a fatica di uscire da una storia d’amore molto, troppo complicata, che mi aveva colto senza gli «strumenti umani» (citando Vitorio Sereni) per affrontarla; e l’aiuto più grande arriverà proprio dallo studio della letteratura e della poesia intese non tanto come diversivo, come distrazione, quanto piuttosto come esempi e modelli su cui accordarli, quegli strumenti. Un esempio fra tutti è la Vita nuova, la cui lezione andrà ben oltre quella metrica e stilistica. Quel Dante giovane e tormentato da un amore destinato a non avere una soluzione terrena mi insegna come grazie alla creatività il dolore può essere affrontato, metabolizzato e rigurgitato sotto una forma nuova, e perciò superato – o, come avrebbe detto Freud, sublimato. Sarà poi Gozzano, con la sua ironia tagliente e spesso spietata – specie verso sé stesso – a fornirmi la chiave per gestire al meglio quel processo di sublimazione. Quel che ne esce è un Mirko disincantato, che sa prendere le cose con il giusto distacco e prendersi in giro con affettuoso cinismo: un cazzone che cazzeggia nel laboratorio dei mostri sacri della letteratura italiana, e che in quell’equilibrio metrico sembra trovare – finalmente – il proprio equilibrio emotivo, la propria pace.
Pubblicare oggi il Cazzoniere – in un ennesimo ma definitivo rimaneggiamento, arricchito com’è dalle eleganti illustrazioni dell’amico e mentore Francesco Schirato e da una particolare cura tipografica – significa in un certo modo fare i conti con i vari me stesso: con quello del passato, che con quell’esperienza di studio e di scrittura ha posto le basi culturali, oltre che metrico-stilitiche, per il sé futuro; e con quello di oggi, per ricordargli come lasciandosi ispirare dal bello si può trovare rimedio al brutto che alcune volte sembra sopraffarci.