Mirko Visentin

Vivo, scrivo, camino pa’l cortivo.

Extravaganti: gli scarti del Cazzoniere illustrato

Pubblico qui di seguito i testi che, pur facendo parte del progetto originale del Cazzoniere, sono stati esclusi dalla pubblicazione nel Cazzoniere illustrato. Perché? Ci eravamo dati un limite tecnico di 32 pagine per la pubblicazione, così abbiamo deciso di sacrificare da un lato i tre non-sonetti, dall’altro i quattro sonetti che proprio non volevano lasciarsi illustrare.



Il soffio

Un soffio al mio scrittoio, e un buon odore.
Si effonde una dolcissima fragranza
nell’ancestrale e sacra nostra usanza
di far di noi un tutt’uno per amore.

Ubriaca il suo profumo nel calore
del caminetto acceso nella stanza,
ma più m’inebria questa sua pregnanza
di ciò per cui mi stiman grande autore.

«Tu pensi che mi dia un po’ troppe arie?»
le chiedo. Lei mi guarda, sorridente;
e senza attender troppi complimenti:

«Per nulla, anzi le trovo assai eloquenti
queste espressioni affatto necessarie
che fan di noi un tutt’uno, corpo e mente.»

*

Mi pare sia il primo sonetto che ho scritto. A tradirne la scrittura primigenia l’ambientazione crepuscolare (lo scrittorio e il caminetto presso cui i due amanti si interrogano su questioni estetiche) e la tematica irriverente (tanto quanto il titolo della raccolta). Anche lo schema simmetrico delle rime delle terzine (CDE ECD) risulta parecchio irriverente…

Lettere e Filosofia

Fresco l’autunno era giunto oramai,
mostrando in giro già vesti pesanti.
Avevo gli occhi miei per l’aula erranti,
quand’ecco che ad un tratto ti notai.

Figura sì piacente non fu mai,
semplice ed elegante, a me davanti;
e spinto da ragioni estetizzanti
mi mossi a far quel che tu ben già sai.

Ma timidezza – e poi ragione rea –
la confessione mia influenzaron tanto
sicché in patetica mutaron quella

che estetica anzitutto esser dovea.
Per cui quel giorno dirti io soltanto
avrei dovuto: “Ma sei solo bella?”

*

La “lei” a cui questo sonetto si rivolge è una studentessa che nella primavera del 1997 frequentava assieme a me il corso di Filosofia della politica. Ricordo che era del Lido di Venezia, e oltre ad essere molto bella – di una bellezza “francese” – indossava dei mocassini incantevoli. Il problema è che glielo dissi, un giorno, finita lezione, dopo averle chiesto se poteva passarmi gli appunti del giorno precedente. Io mi sentii come Nanni Moretti in Bianca, lei non so. Pero credo abbia preso paura – e come darle torto. Fatto sta che fu la prima e l’ultima volta in cui le parlai. Non ricordo nemmeno se mi diede gli appunti che le avevo chiesto. Forse si inventò una scusa per non darmeli e per non darmi così più l’occasione di rivolgerle ancora la parola. Lo schema rimico è il più classico tra quelli disponibili: ABBA ABBA CDE CDE.

Briscola

Venezia. Sbircio dentro a un’osteria.
L’eroica antichità che non si parte,
pensosa sopra le sudate carte,
mi getta in petto gran malinconia.

«Preparati a esser vecchia, vecchia mia
carcassa; e spera – va’ – in cuor tuo che l’arte
delle diverse tue sudate carte
possa aiutarti, e di conforto sia…»

Un cigolio. Mi giro, guardo e vedo 
una figura che si appresta a uscire:
giovane, bella, sobria ed elegante;

sicché Tristezza mi si fa distante.
«A cosa pensa?», sorridendo chiedo.
«Che prima o poi dobbiam tutti morire.»

*

Si può pensare alla vecchiaia – e alla morte – anche a 20 anni. Per affrontare l’argomento presi a prestito, giocherellandoci, le «sudate carte» di Leopardi, da A Silvia («Io gli studi leggiadri / talor lasciando e le sudate carte»). Lo spunto arrivò un giorno mentre, immerso nei miei pensieri nichilisti, mi recavo per pranzo all’osteria Da Codroma (a due passi da San Sebastiano, sede di Lettere). Sulla soglia incontrai una ragazza, molto carina, con la quale riuscii a scambiare solo un fugace sguardo: tanto bastò per rispecchiare nei suoi occhi il senso di malinconia che covavo dentro. Se all’interno del locale ci fossero davvero i vecchi che giocavano, o se si sia trattato solo di una reminescenza dei Giocatori di carte di Cezanne, non saprei dire. Lo schema rimico (ABBA ABBA CDE ECD) va in corto circuito nelle terzine, esattamente come in Il soffio, però non suona male.

Per una biriciola di croissant

Sola, una cosa, fomenta il terrore
nel profondo del mio animo vagante
per questo antico borgo galleggiante:
è il sadico, venetico aviatore.

E pur se in me causò sempre dolore
veder predata fiera agonizzante,
in quegli istanti non sia detto errante
se bramo l’arme del vil cacciatore.

Perché è angosciante la brusca virata,
l’avvicinarsi poi ratto e deciso
che in un secondo si fa già picchiata.

Poi l’ala fredda, che sferza il mio viso,
già si fa pronta a una nuova planata,
e a raggelare qualche altro sorriso.

*

C’è stato un periodo, durante l’università, in cui mi ero messo in testa di essere invisibile ai colombi. Io camminavo tranquillo per Venezia e loro sembrava facessero a posta a venirmi addosso, costringendomi a fare delle mosse alla Matrix per evitarli, attirando così su di me gli sguardi attoniti dei passanti. Attoniti non per la tragedia che avevo appena sfiorato ma per i miei spasmi improvvisi e – ai loro occhi – ingiustificati. Lo schema (tra i più classici) a due sole rime delle terzine (CDC DCD) sembra voler sottolineare l’angoscia del momento. Chissà se è voluto…

La stanza nella stanza

Ormai son giunto al punto della vita
– di questa grama vita di poeta –
che, standomene a letto,
nel mentre dell’inconscia dipartita
dal mio esser conscio, il già-sonno dislieta
un surreale effetto:
mi penso – Cristo! – in forma di sonetto…
Il titolo è la testa; il busto e i fianchi
s’incrociano in quartine ABBA;
terzine son le gambe e i piedi bianchi.
Atroce nasce il dubbio da un sospetto…
nei boxer se ne sta,
a guisa di una roccia,
il turgido rigor di rima chioccia.

*

«Dicimus ergo quod cantio … est equalium stantiarum sine responsorio ad unam sententiam tragica coniugatio» scrive Dante nel suo De vulgari eloquentia («Diciamo quindi che la canzone … è una sequenza di stanze di uguale metro senza ritornello che trattano di uno stesso tema in stile tragico»). E cosa può esserci di più “tragico” di sognare che il proprio corpo ha assunto le sembianze strutturali di un sonetto? A me è successo, davvero. E per immortalare il momento ci scrissi una stanza di canzone. Logico. («Chi troppo studia e poi matto diventa…» faceva sentenziare il buon Guido Gozzano al vecchio fattore nellAnalfabeta, in La via del rifugio – 1907).

Amanti

«Il fulvo crine sparso all’aere terso…»
Ti chiedo: «Che ti pare del mio verso?»
Mi fai: «Non so, il concetto non è chiaro…
e poi il vocabolario è troppo raro…»

«Insomma fa cagare, è da buttare!»
E: Amore è un sentimento del mio cuore?
«Già meglio: c’è del pathos, del calore…»
«Lasciamo stare, va’, lasciamo stare…»

*

Prove tecniche di petrarchismo («Aveva i capei d’oro a l’aura sparsi…» da Canzoniere, XC) condito con un po’ di maschilismo. Due quartine risultate inutilizzabili per un sonetto a causa della loro diversa struttura metrica. Che peccato…

«Macchina!»

I

La strada che dall’uomo prese il nome
che primamente andò fin sulla Luna;
l’estate, le vacanze e la fortuna
di rari “ma perché? perchì? percome?”.

A noi bastava un sasso ed un pallone,
un tratto di stradina ed un lampione
per parte, ad uso palo, per le porte.
«Palla mia? Palla tua? Tiriamo a sorte!»

E come se qualcuno conoscesse
la saga dell’ebreo pel mondo errante,
ed Heine a dieci anni letto avesse,
sentivasi gridar: «Portier volante!»

II

L’intero meriggiare si passava
a correre, a sudare, a pièttirare.
Giungeva quindi l’ora di cenare.
(La mamma dal terrazzo che chiamava,

il goal vincente che non arrivava…)
«Un attimo, son qui per arrivare!
Ragazzi, dài, muoviamoci a segnare!»
(La mamma dal terrazzo già che urlava…)

Ed ultimo giungeva il goal atteso.
«Avete avuto solo tanta bava!»
diceva chi, crucciato, già pensava
alla rivincita che avrebbe reso.

III

La stella s’era appena dipartita,
che a digerire il lesto desinare,
in una luce ormai crepuscolare,
aveva inizio una nuova partita.

«Macchina!» tutt’a un tratto si sentiva.
«Ou, macchinaaaaa!» per chi non ci sentiva
di soffocare una sì bella azione;
e avidamente in man prendea il pallone…

(Ritorno del rimosso, epifania,
proustiana intermittenza del mio cuore,
e non madeleine, né Freud, né segna ore,
bensì una voce, un’auto: la mia via.)

*

Un poemetto dedicato alla mia infanzia, ai miei compagni di giochi di allora e alla strada in cui sono cresciuto (via Neil Armstrong, «l’uomo / che primamente andò fin sulla Luna»…), che a seconda del bisogno fungeva da campo da baseball, da tennis, da pallavolo, da calcio. Lo spunto lo ebbi un pomeriggio d’estate del 1997, mentre studiavo seduto allo scrittoio di camera mia. Oltre la finestra, giù in strada, vociare di ragazzini che giocavano, come noi all’epoca. E fu subito poesia…

Devo dire che a distanza di tanti anni è forse uno dei testi in cui, abbandonando la forma rigida del sonetto (il poemetto si struttura infatti in quartine di endecasillabi rimati ABBA o AABB), mi sono lasciato di più andare all’ispirazione poetica, in quell’alternanza tra malinconia e ironia, lingua reale e neologismi, che ho cercato di perfezionare poi nella produzione in dialetto. Rimangono ancora presenti i riferimenti letterari, in primis – nella descrizione della disputa calcistica – gli scontri cavallereschi rievocati nell’Orlando furioso dell’Ariosto. Nella prima “stanza” il richiamo al poeta romantico tedesco Heinrich Heine si collega alla lettura del suo romanzo picaresco Schnabelewopski per il corso monografico di Letteratura tedesca sul mito dell’ebreo errante. Alla terza stanza quel «la stella s’era appena dipartita» è un omaggio alle magistrali perifrasi con cui Dante, specie nell’Inferno, inquadra i diversi momenti della giornata (la «stella» è quella per antonomasia, ovvero il sole). Nell’ultima quartina, per cercare forse di dare importanza e autorevolezza e un atto all’apparenza così banale come quello di trascrivere in versi un ricordo d’infanzia emerso dall’oblio grazie a uno stimolo esterno, chiamo in aiuto – con un’operazione di sintesi degna di un Bignami, in realtà sulla scorta della lettura dei saggi sul romanzo del Novecento di Giacomo Debenedetti – tre celebri intellettuali di inizio Novecento che attorno a quello stesso tema hanno scritto pietre miliari della letteratura e del pensiero contemporaneo: lo psicanalista austriaco Sigmund Freud, con la sua teoria del «ritorno del rimosso»; lo scrittore irlandese James Joyce, con le sue le “epifanie” (una delle quali, in Stefano eroe, si accende di fronte all’orologio – il «segna ore»… – della città di Dublino); il narratore francese Marcel Proust, con le sue «intermittenze del cuore», primo titolo del suo capolavoro Alla ricerca del tempo perduto, la cui poetica della «memoria involontaria» è nota a tutti grazie all’episodio delle madeleine intinte nel tè.

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